Skip to main content
Il racconto prima di tutto. Conversazione con Giacomo Scarpelli

Il racconto prima di tutto.|||Conversazione con Giacomo Scarpelli

Giacomo Scarpelli (Roma,  23 maggio 1956), storico della filosofia, sceneggiatore e scrittore è figlio del leggendario sceneggiatore Furio e fratello maggiore del violoncellista Matteo: quella della scrittura è una dote di famiglia dal momento che anche lo zio Manlio, si è dedicato alla sceneggiatura cinematografica, oltre che alla regia di due lungometraggi. Ha conseguito il dottorato di ricerca in filosofia all'Università di Firenze, è Fellow della Royal Geographical Society e della Linnean Society of London. Insegna Storia della filosofia e Storia delle idee all'Università di Modena e Reggio Emilia. In ambito cinematografico si forma al fianco dell’illustre padre, che insieme ad Age (Agenore Incrocci) - con cui forma la storica coppia Age & Scarpelli - è considerato tra i padri della cosiddetta Commedia all’italiana. Furio Scarpelli ha scritto tra le pagine più intelligenti, ironiche e divertenti del nostro cinema, che sono state trasportate sullo schermo in film come La Grande Guerra (1959), I compagni (1963), L’armata Brancaleone (1966), Sedotta e abbandonata (1964), Signore & signori (1966),  La marcia su Roma (1962), I mostri (1963) Tutti a casa (1960), Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l'amico misteriosamente scomparso in Africa? (1968), Dramma della gelosia - Tutti i particolari in cronaca (1970), C’eravamo tanto amati (1974), La terrazza (1980).

L’esordio in qualità di sceneggiatore, avviene nel 1989 con il film Tempo di uccidere, diretto da Giuliano Montaldo, tratto dall’omonimo romanzo di Ennio Flaiano, con Nicolas Cage nella parte del tenente Enrico Silvestri, film scritto proprio insieme a suo padre. Può parlarci del vostro rapporto, e della vostra collaborazione professionale?

Tempo di uccidere, è stato il mio primo film come sceneggiatore. Una sceneggiatura a cui prese parte anche Paolo Virzì, all’epoca allievo di mio padre al Centro Sperimentale di Cinematografia, che proprio con questo film esordiva nel cinema. Il romanzo di Flaiano è l’unico in Italia dedicato alle imprese coloniali, tra l’altro vinse anche lo Strega, un testo molto delicato da mettere in scena, e purtroppo il produttore Leo Pescarolo, un grande amico peraltro, volle fare un film internazionale, esotico, recitato in inglese, con la star americana del momento, girato in parte in Kenya, location però che era totalmente diversa dall’Etiopia, paese che conoscevo bene, essendoci stato poco tempo prima con una Ong. L’Etiopia, che aveva un paesaggio riarso, da meridione italiano degli Anni Venti, aveva poco a fare con quello lussureggiante del Kenya. Un film girato con maestria da Montaldo, persona tra le più amabili che abbia conosciuto, e un grande professionista, ma che si rivelò essere in fondo un ibrido. Del resto, in Abissinia i colonizzatori spesso si trovavano di fonte a dei colonizzati che erano persino un gradino superiore a loro stessi. Un’impresa del tutto sbagliata quella italiana, non pienamente riuscita. Comunque, più vero e convincente di Cage-Silvestri, il personaggio del sottotenente Bandelli, interpretato da Ricky Tognazzi, che riprende la figura del narratore stesso, il giovane Flaiano. Per ciò che riguarda il rapporto professionale con mio padre, c’è da dire che già a dieci-undici anni gli battevo in macchina i copioni dei vari lavori in cui era impegnato: la nostra collaborazione ha origini per così dire precoci, evidentemente. Successivamente, presso la sede della sua Società di produzione che aveva fondato insieme ad Age ed Ettore Scola, la Massfilm,  mi ritrovai a collaborare  insieme a mio padre e altri sceneggiatori: mio padre era abituato a lavorare nella confusione, in compagnia di altre persone, e infatti, lui, come Fellini e Scola, si erano formati proprio in un ambiente, quello del Marc’Aurelio, storica rivista satirica,  dove si lavorava a stretto contatto e in un clima di caos creativo. Ricordo che ripeteva sempre “fate chiasso, sennò mi distraggo”. Era un modo per confrontarsi, nel suo lavoro amava discutere anche di altro, di politica, di musica, di vita vissuta e così le idee venivano fuori, anche quando meno te lo aspettavi. La sua caratteristica principale  era certamente quella che riguardava l’aspetto comico, satirico delle sceneggiature, delle sue storie,  che però dovevano poggiare su una sostanza fortemente drammatica: mi diceva sempre che era impensabile far ridere, se alla base di un film, non ci fosse stata una storia drammatica, se non addirittura tragica. E nei suoi film, infatti, si narrano le storie di disgraziati, di gente alla deriva alla ricerca di un riscatto sociale e umano, e di una vita migliore. Al di là dell’aspetto comico, c’era sempre questa serietà di fondo, questo grande spessore intellettuale, che fanno sì che i suoi film non invecchino mai, in fondo. Cosa aggiungere, se non che sia stato il mio maestro, indubbiamente, e non soltanto per la scrittura: mi ha insegnato a disegnare ad esempio, una dote di famiglia; mio nonno Filiberto è stato un famoso giornalista e illustratore. Nel lavoro, era abbastanza severo, con noi giovani sceneggiatori: all’epoca oltre a me e Virzì, la sede era frequentata da Francesca Archibugi, Graziano Diana, Marco Tiberi, che sono cresciuti sotto la sua egida. Riunioni anche divertenti, in cui la preparazione al film, poteva essere anche molto lunga, e durare settimane o mesi addirittura: durante questi nostri incontri ricordo un’infinità di chiacchiere, discorsi che potevano sembrare anche fuorvianti per chi ascoltava, ma in realtà non era cosi: mio padre a chi gli faceva notare che non si era parlato del film, lui rispondeva “questo lo pensi tu”, come a dire, che tutto contribuiva alla costruzione della storia, di un sceneggiatura. Un modo di lavorare che in un certo senso era stato inaugurato da Sergio Amidei, che era stato il suo maestro e di tutti gli altri.  Comunque per mio padre, il cinema non era un fine, ma un mezzo per raccontare.

Nel 1994, insieme a Massimo Troisi, Anna Pavignano, Michael Radford e Furio Scarpelli, prende parte alla sceneggiatura de Il Postino, regia di Michael Radford, con cui ottiene una nomination al Premio Oscar e al Bafta.

Quale ricordo conserva di quell’esperienza, e cosa può dirci riguardo la trasposizione cinematografica in generale di un testo letterario?

Il film interpretato da Troisi, è  ispirato a Il postino di Neruda (Ardiente paciencia), romanzo scritto dal cileno Antonio Skármeta.

 

Troisi soprattutto si era innamorato di questo romanzo di Skármeta. Il problema principale in questo film, fu quello di trasportare la storia del romanzo, che era ambientata in Cile, nel piccolo villaggio di pescatori a Isla Negra, tra il 1969 e il 1973: mio padre inizialmente aveva pensato anche alla figura di Primo Levi, negli anni dell’esilio in Lucania, come punto di riferimento, e di costruire una storia tra lui e il postino locale. Quando lessi Le lettere di Neruda e altri scritti autobiografici del poeta, scoprii che era stato in esilio in Italia, costretto a fuggire dal Cile a causa del suo attivismo comunista, dopo uno dei tanti colpi di stato cileni. Per l’esattezza, dopo Russia e Francia, se ben ricordo, venne a Roma, e di lì andò a Capri, tra l’inverno del 1952 e la primavera del 1953, ospite di Edwin Cerio. La mia proposta, di ambientare il romanzo, in Italia, fu ben accolta e così si decise di seguire questa linea narrativa: era plausibile a tutti gli effetti, che Neruda avesse potuto incontrare il postino Mario Ruoppolo, nel suo soggiorno caprese. Naturalmente per non cadere nell’errore di favorire un mero pellegrinaggio turistico in merito alla pellicola, l’isola che ospitava Neruda, venne identificata semplicemente come l’Isola: il film quindi fu girato in parte a Procida e in parte a Salina, dove venne ubicata la sua casa. Riguardo la trasposizione cinematografica di un testo letterario, tra noi e gli americani c’è questa sostanziale differenza: in America le produzioni tratte dai romanzi rappresentano circa l’ottanta per cento del totale, siano essi romanzi di grande o piccolo valore, mentre in Italia era il produttore che decideva di voler fare un film di guerra, sentimentale o comico, e chiedeva agli sceneggiatori di inventare letteralmente la storia: loro, prima di tutto, scrivevano il romanzo, la novella, il trattamento da cui ricavare la sceneggiatura. Mio padre insisteva molto  sul trattamento, che fosse originale o meno, era lì che identifica il cuore e l’anima del film stesso: spesse volte si trattava di trasportare sullo schermo romanzi che potevano non piacere del tutto, e la bravura dello sceneggiatore era proprio quella di renderlo appetibile, di plasmarlo per il grande pubblico. Il romanzo di Skármeta, aveva già in sé un suo cuore pulsante, e lo stesso autore, che si mostrò con noi molto affettuoso,  ci fu sempre riconoscente, perché il grandissimo successo del film naturalmente contribuì a far conoscere ancora di più in tutto il mondo il suo romanzo. Ancora oggi a distanza di venticinque anni, ci scriviamo spesso.

Tra le diverse sceneggiature, da segnalare quella con Ettore Scola, per i film Romanzo di un giovane povero (1995), La cena (1998) e Concorrenza sleale (2001): Scola  è stato tra i nostri più grandi sceneggiatori, cosa ricorda della vostra collaborazione?

 

Scola, oltre che un grande regista, è stato soprattutto un grande scrittore di immagini e in un certo senso ha sempre rimpianto la sua professione di sceneggiatore, è stata la sua prima grande passione, dopo quella del giornalismo satirico da dove proveniva. Scherzosamente  raccontava che prima di passare alla regia scriveva sei-sette sceneggiature l’anno, e quindi anche dal punto di vista economico era molto vantaggioso: da regista,invece, poteva impiegare anche due, tre anni per realizzare un solo film. Dei suoi film, Ettore, scrisse anche la sceneggiature naturalmente, spesso in collaborazione con la coppia Age & Scarpelli: mio padre, a tal proposito, mi diceva che per vedere se il regista fosse davvero bravo, si doveva far attenzione, se in fase di costruzione della storia,  parlasse di come lo avrebbe girato: ebbene Ettore era un autore che non parlava mai di questi particolari tecnici, ma si concentrava solo sulla  storia da raccontare. Tutto quello che avrebbe riguardato  i movimenti di macchina, la fotografia, ecc…non li tirava mai fuori, tutta la preparazione tecnica del film, avveniva solo successivamente alla stesura della sceneggiatura. Soltanto una volta, in merito alle nostre collaborazioni, si presentò l’esigenza di intervenire sulla sceneggiatura, per questione registiche. Giravamo a Cinecittà, uno dei suoi ultimi film, Concorrenza sleale, e ricordo come fosse già molto affaticato: ebbene un giorno chiese a me e a sua figlia Silvia, di unire due, tre momenti presenti in sceneggiatura, che avrebbe girato in un’unica scena, in interno per la tromba delle scale, con un dolly. La scena in questione era quella in cui Elio Germano dopo una lite si lasciava con la sua ragazza. Anche Mario Monicelli, con cui collaborai al Paganini, un film mai realizzato, di cui è stato pubblicato il trattamento, sotto questo aspetto era simile a Scola, anche per lui valeva infatti la regola che quando si trattava di parlare della storia, non si doveva far riferimento alla messa in scena. Monicelli, poi, per sua scelta sul contratto, pretendeva che ci fosse scritto regia di e non un film di, come avviene oggi: un’altra epoca davvero.

 

Nel 2011 firma la sceneggiatura di Tormenti - Film disegnato , scritto insieme a suo padre, che lo ha anche illustrato. La regia è di Filiberto Scarpelli, figlio dell’ Autore della Cinematografia Marco Scarpelli. Una sorta di graphic novel, con Alba Rohrwacher e Luca Zingaretti (voci). Voglio cogliere l’occasione, per chiederle un ricordo di suo zio Marco, che ha illuminato film come Casta diva (195) di Carmine Gallone, Un giorno in pretura (1954) di Steno, Bravissimo (1955) di Luigi Filippo D’Amico, La strada lunga un anno (1958) di Giuseppe De Santis.

 

Mio zio Marco è stato il maestro di Vittorio Storaro: ad ogni conquista del Premio Oscar, ricordo che gli mandava un bigliettino di ringraziamento. Mentre mio padre negli anni Trenta si dedicò al giornalismo, al disegno, al fumetto e rimase in Italia, mio zio, al contrario fu spedito nel 1936 in Spagna, negli anni della guerra civile, a fare il cine-operatore per conto dell’Istituto Luce, e in Russia durante la seconda guerra mondiale; la sua è stata una vita avventurosa, aveva un animo spiritoso e vedeva sempre nelle cose l’aspetto umano e ironico, e non era mai retorico, come del resto mio padre. Per tanti anni fu anche l’operatore di Fulco Quilici, si era persino comprato una casa a Papeete. Mio padre e mio zio andavamo molto d’accordo, avevano questo dono di saper vedere e interpretare quello che veniva dal basso: erano molto vicini all’anima popolare che conoscevano alla perfezione, pur venendo da un’estrazione sociale diversa, diciamo bohémienne. Riguardo Tormenti era un fumetto che negli ultimi anni mio padre si era dedicato a disegnare e scrivere, tornando di fatto alla sua prima vera passione: ambientato negli anni del fascismo, si narrava di un avvocato vanesio di mezza età che aveva una relazione impetuosa con una giovane stiratrice. Un film “disegnato” su una serie di tavole scritte e tratteggiate da lui stesso, che purtroppo ci lasciò poco prima di poterlo vedere concluso.

Nel 2012, al Torino Film Festival ha presentato un documentario dedicato a suo padre dal titolo Furio Scarpelli. Il racconto prima di tutto scritto con Francesco Ranieri Martinotti che ne ha curato la regia. Lo stesso documentario ha ricevuto una Nomination ai Nastro d’argento del 2013 per il Migliore Documentario sul Cinema. Ce ne può parlare?

 

L’idea in qualche modo venne a Martinotti, attualmente Presidente dell’Anac,  che presentò questo progetto alla Toscana Film Commission e ricordo che dovemmo forzare un po’ il soggetto, facendo passare mio padre più toscano di quanto non lo fosse in realtà: certo sua madre era toscana, ma suo padre napoletano e lui romano. Il titolo è molto significativo, perché riporta l’esigenza principale di mio padre nel suo lavoro, quella cioè di raccontare delle storie prima di tutto. Furio Scarpelli. Il cinema viene dopo, scritto da Alessio Accardo, Chiara Giacobelli  e Federico Govoni, la sua biografia, sembra essere speculare della poetica di mio padre e perfetto completamento del nostro titolo.

Nel 2014 è apparso nel documentario Walt Disney e l'Italia - Una storia d'amore  diretto da Marco Spagnoli. in cui ha raccontato aneddoti, impressioni e ricordi su Walt Disney che conobbe personalmente a Los Angeles, da bambino, nel 1965. Come andò?

Nel 1965 Age e mio padre furono chiamati da Hitchcock a Hollywood per scrivere una sceneggiatura per una commedia che si sarebbe dovuta intitolare Le cinque R. Dopo essersi incontrati una prima volta a Roma, vennero quindi invitati a New York e successivamente nell’estate del 1965 a Los Angeles, dove si recarono con le rispettive famiglie. Attraversammo l’oceano in nave, con il transatlantico “Cristoforo Colombo”, perché mia madre aveva paura di viaggiare in aereo. Nella trasferta statunitense, ebbi il piacere di incontrare diverse volte Hitchcock, lui per ricordasi il mio nome, mi chiamava “Jackcomo”, usando il cognome di Perry Como, cantante molto in voga allora. Una sera eravamo a cena a Hollywood in un bel ristorante, insieme a Age con suo figlio Alberto e sua moglie Odette e Hitchcock con la moglie Alma Reville, che era anche la sua sceneggiatrice: una donnina minuta, completamente diversa dal personaggio tratteggiato da Helen Mirren nel film dedicato alla realizzazione di Psycho, uscito qualche anno fa. Hitch era seduto proprio davanti a me e  ricordo che cercava di spiegarmi il principio dell’equilibrio del ponte del Golden Gate, usando il bordo di un bicchiere di cristallo, su cui aveva poggiato due forchette e una moneta incastrata tra i rebbi. Francamente non capii molto di ciò che volessi dirmi. Nel frattempo si avvicinò al tavolo un signore con baffetti, in abito grigio perla, per salutare  Hicthcock: era Walt Disney. Per me bambino fu come un sogno che si avverava, io mi presentai a lui come  a member of the Mickey Mouse club e gli strinsi la mano che non mi lavai per una settimana. Fu molto cordiale e generoso con noi, tant’è vero che fummo suoi ospiti per tre giorni nel suo parco di divertimenti, Disenyland, in un albergo con tanto di hostess a nostra completa diposizione. Un’esperienza incredibile, che ancora oggi mi capita scherzosamente di raccontare ai miei studenti, che puntualmente ne rimangono affascinati.

Quale è stato il film preferito da suo padre?

 

Forse I Compagni di Mario Monicelli, perché fu quello tra i suoi lavori che ebbe meno successo, anche se conquistò comunque una nomination al Premio Oscar nella categoria miglior sceneggiatura originale. Gli voleva bene come ad un figlio che non aveva avuto fortuna nella vita.

Per lei invece?

 

Anche per non citare i soliti film, direi A cavallo della tigre diretto da Luigi Comencini, con Nino Manfredi, film che oggi è diventato un piccolo cult e tra i film più divertenti e più drammatici allo stesso tempo del nostro cinema. E anche Risate di gioia, di Monicelli, con Totò e la Magnani, indimenticabile duetto. Tra i film scritti insieme, senza dubbio Il Postino, una bellissima storia con un grandissimo attore.

Secondo lei, come è cambiata negli anni la scrittura cinematografica italiana? 

 

Presto uscirà un mio nuovo libro Storie di carta, storie di celluloide per ETS di Pisa, in cui cerco di spiegare proprio come sarebbe il caso di raccontare una storia per il cinema. Ora si tende a sceneggiare pensando già all’attore che interpreterà quel dato personaggio, si pensa troppo al film e meno alla storia. E poi c’è un tale appiattimento generale: all’epoca c’era più libertà di creazione, oggi le necessità sono solo quelle delle produzioni e delle teleproduzioni. Lo spettatore infine, viene considerato come qualcuno che ne sa poco, o cui bisogna servirgli sempre le stesse cose, e invece spesso il pubblico è più competente dello stesso sceneggiatore. Ci si informa poco, spesso si lavora da soli, non c’è più quella ricerca approfondita, quel dibattito, e questo è un grande limite. Mio padre e Age litigavano spesso nelle loro riunioni, è noto, eppure questi confronti sono stati propedeutici alla nascita di grandi capolavori, di narrazioni diciamo emblematiche di un’epoca. Che ancora oggi si vedono con grande piacere, e che fanno riflettere.

 

Subscribe to Our Newsletter: